Ad oggi, sentir parlare di parità di genere sembra scontato. Eppure in un luogo ben preciso, ovvero nel campo della medicina, ci sono delle evidenti differenze tra uomo e donna che, purtroppo, sono ancora poco indagate.
Il processo di scoperta e sviluppo del farmaco è più lungo e complesso di quanto si pensi. Infatti in modo molto riduttivo, bisogna sapere che si parte dallo studio della patogenesi, ovvero da quali sono i meccanismi molecolari e cellulari che portano allo sviluppo vero e proprio della malattia. Successivamente si passa alla sperimentazione, in cui si cerca di capire quale e come un dato principio attivo, possa avere un’azione curativa della malattia o migliorativa per la qualità della vita. Questo processo dura in realtà molti anni, e molti sono anche i soldi che devono essere usati per tali studi.
Le differenze di genere sono presenti in ogni singola fase di questo lungo percorso. Nell’insorgenza della malattia stessa, qualunque essa sia, esistono già delle differenze legate al sesso. Questa complessità di risposta è data da diversi fattori: biologici, fisiologici, sociali.
Durante la sperimentazione clinica di un medicinale, ovvero ciò che determina l’immissione in commercio di un determinato farmaco, si attraversano diverse fasi. Ogni fase rappresenta uno step da superare, in cui si parte da una molecola e si sviluppa il vero e proprio farmaco. Sono studi che durano anni e il loro fine è confermare la sicurezza ed efficacia del farmaco stesso.
Per anni, il tipico esempio di soggetto su cui venivano basati questi studi è stato l’uomo. Facendone poi una generalizzazione, «un uomo medio di circa 70 kilogrammi», frase che qualsiasi studente di medicina, biologia, farmacia e simili avrà letto almeno una volta nei propri libri.
Quello che forse molti non sanno è che, per anni, la donna, durante queste ricerche cliniche, è stata categorizzata «popolazione speciale». Ciò significa che, nella medicina, la donna è stata considerata un “sottogruppo”.
Esattamente fino al 1993, gli studi sono stati condotti esclusivamente su popolazioni maschili. La stessa Food and Drug Administration (FDA) – l’agenzia regolatoria americana che garantisce la qualità, la sicurezza e l’efficacia dei farmaci – vietava l’arruolamento delle donne nei trials scientifici, per una motivazione per lo più “etica”: il timore che i farmaci sperimentali potessero avere un possibile effetto collaterale su un potenziale feto, vedendo le donne come procreatrici prima che umane.
Inoltre, tra le donne è ampissima la diversità della risposta fisiologica. Basti pensare che in un solo mese ogni donna attraversa diverse fasi ormonali. Proprio gli ormoni giocano un ruolo importantissimo e influenzano il sistema immunitario e la risposta ai farmaci. Per la sperimentazione, ciò significa più soldi da spendere e più persone da arruolare, ovvero un cospicuo numero di pazienti donna per ogni fase a cui vanno incontro ogni mese.
Per fortuna questa concezione è cambiata, e finalmente è stata riconosciuta l’importanza della presenza femminile all’interno dei trials clinici. La sola consapevolezza però non basta, benché sia un ottimo punto di partenza. Le donne sono ancora sottorappresentate negli studi clinici, nonostante la popolazione mondiale attualmente veda la percentuale femminile al 49,6%, quasi la parità. In particolare, spesso le donne vengono arruolate solo nelle ultime fasi della sperimentazione, quando la maggior parte delle caratteristiche del farmaco, sono già state decise sulla base delle evidenze scoperte negli uomini.
Tra le differenze che contraddistinguono il genere femminile, ci sono quelle farmacocinetiche e farmacodinamiche. Le prime sono più studiate e più note alla ricerca scientifica, ma per quanto riguarda le differenze farmacodinamiche la ricerca si impegna ogni giorno a capirne meglio i meccanismi. Un’altra difficoltà riscontrata è data dal fatto che vengono utilizzati meno animali femmina durante la sperimentazione.
Le differenze farmacocinetiche, che fanno riferimento ai vari momenti dell’Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo ed Escrezione (ADME) – ovvero le fasi principali che affronta un farmaco assunto – , dimostrano differenze per lo più ormonali durante la fase di assorbimento e di distribuzione. Esiste una diversa composizione corporea tra uomo e donna, che vede quest’ultima con una percentuale di massa grassa generalmente superiore, e pertanto le donne hanno un volume di distribuzione minore per i farmaci idrofili (con una maggiore affinità per l’acqua) e maggiore per quelli lipofili (con una maggiore affinità per i grassi) parametro da tenere in considerazione soprattutto con i farmaci con basso indice terapeutico. Diverse sono poi le attività degli enzimi epatici, che influiscono nel metabolismo riscontrando divergenze anche nell’escrezione renale a causa di una minore velocità di filtrazione nella donna.
In realtà, generalmente le donne sono più consapevoli e tendono a fare più prevenzione. Sono più propense ad avere comportamenti ed abitudine sane, ad andare dal medico e a fare visite di controllo, prendono solitamente più farmaci. Spesso sono le detentrici dei farmaci presenti in casa e si prendono cura dei disturbi minori che possono, appunto, essere trattati tra le mura domestiche come primo soccorso.
Ma anche questo segue un enorme bias sociale a cui poco si pensa: le donne hanno interiorizzato l’idea di essere più vulnerabili e, quindi, più bisognose di cure.
In più, sembra scontato ammettere che, solitamente, la cura del prossimo è un dovere non scritto che appartiene alla donna. Ma anche questa volta, la lotta è per i diritti.
Dr.ssa Martina Colistra Farmacista. Laureata in Farmacia, presso l’Università degli Studi di Siena